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Curiosità

Perché si dice “schiattamuorto”? La verità è una storia horror

Published by
Giuseppe Franza

Il becchino, cioè l’addetto alle pompe funebri, a Napoli è comunemente noto con il nome poco nobile di schiattamuorto. Ma come nasce questo nome? E come mai continua a essere usato?

Lo schiattamuorto unisce nel proprio nome un verbo (schiattare) e un sostantivo (muorto, ossia “defunto”). L’espressione è dunque abbastanza chiara, dato che esprime un’azione e un complemento oggetto.

Schiattamuorto (fonte: Wikipedia)

Il verbo schiattare ha molteplici significati nella lingua napoletana. Probabilmente ha un valore onomatopeico, in quanto ricorda un suono particolare collegabile a una forte compressione di un corpo con relativa esplosione rumorosa della sua sostanza. Forse deriva dal latino exclappitare… Insomma: a Napoli si usa il verbo schiattare per indicare lo schiacciare, l’effetto di rottura di un corpo dopo un trauma, un forte rodimento interno (anche morale), una sofferenza estrema e, infine, il morire.

Se a Napoli qualcuno dice “sto schiattando“, probabilmente sta indicando un sentimento di malessere, dato che l’espressione può essere tradotta come “sto morendo“. Ciò in relazione all’antico nome del becchino, che suonava appunto come schiattamuorto. Pare che questo poco simpatico nomignolo popolare attribuito ancora oggi agli operatori funebri sia sorto intorno al Seicento.

All’epoca era raro che i defunti fossero seppelliti nei cimiteri. Il più delle volte finivano compressi in scatole (tavuti) interrati fuori o al di sotto delle chiese, per esempio nelle catacombe. I cadaveri dei nobili e dei più ricchi, invece, riposavano all’interno degli edifici religiosi, nelle cappelle, oppure nei propri palazzi. Andavano quindi inseriti con opere di muratura all’interno delle strutture portanti delle chiese o delle dimore.

In entrambi i casi entrava in gioco lo schiattamuorto, chiamato a comprimere e schiacciare i cadaveri dei poverelli in spazi sempre più ridotti, o a inserire il corpo del defunto benestante in uno spazio murario. Sempre nel Seicento era di gran moda lasciare il teschio del cadavere ben esposto al pubblico. In pratica il corpo del defunto veniva decapitato: la testa finiva all’esterno, a mo’ di decorazione, inchiodata sul muro o sopra una nicchia. Il resto del corpo, invece, andava tumulato nella muratura.

L’origine del nome schiattamuorto

A quel punto, specie nei palazzi nobiliari, un artista di solito collegato all’impresa funebre dipingeva un corpo riccamente vestito sotto il teschio, in corrispondenza del cadavere tumulato. Tale pratica cessò del tutto quanto la maggior parte dei defunti cominciò a essere inumata, ossia seppellita in ambienti circoscritti e dedicati, conosciuti con il nome di camposanti o cimiteri.

Il lavoro dello schaittamuorto era considerato come una professione riprovevole e di bassissimo rango. Questo perché l’operazione tipica del becchino era quella delle scolatura. Prima di tumulare il cadavere e di decapitarlo, i becchini erano infatti tenuti a preparare i corpi dei defunti privandoli di tutti i liquidi corporei. Tale pratica, la scolatura appunto, veniva fatta nelle botteghe dei becchini, che per questo figuravano fra i luoghi più malsani e maleodoranti della città.

Ecco perché la professione era spesso svolta da ex galotti o altri disperati. In generale, a Napoli, città da sempre molto superstiziosa, quella del becchino era una figura temuta e al tempo stesso sbeffeggiata.

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La morte del becchino (1895) di Carlos Schwabe (fonte: Wikipedia)

Ancora oggi, in Campania, quando si vuole augurare il male a qualcuno gli si dice: “Puozz sculà“, ovvero “Possa il tuo corpo scolare“, quindi “Possa tu morire“. La scolatura è connessa all’idea dello “schiattare”. I necrofori schiattavano i corpi, per far perdere ai cadaveri tutti i loro liquidi.

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